Paola Volpato - Ma Donne. Testo critico a
cura di Gaetano Salerno.
4 - 19 novembre 2017
Oratorio di Santa Maria Assunta - Spinea (VE)
a cura di Adolfina de Stefani e Luciana Zabarella
La torsione
del busto verso destra, le mani a reggere il clipeo entro il quale è contenuto,
adagiato sul grembo, il Bambino benedicente e la consistenza plastica e carnale
del corpo rompono la fissità della struttura compositiva bizantina, rigorosa e
ieratica, rendendo la Madonna di Paolo Veneziano già gotica, già moderna, già vera.
Dall’iconografia
di questa Vergine in trono, tesa fra antichità e modernità, tra spiritualità e corporeità,
tra astrazione e realismo, parte l’indagine artistica di Paola Volpato. Un’icona,
quella della Madonna, divenuta, nel tempo, immagine archetipica di una
sacralità che ne ha, con sempre maggior autorevolezza dogmatica, sottratto
l’elemento terreno per lasciare emergere l’elemento divino e dissolverne le
carni entro una struttura eterea di ariosa apparizione ed eterna ascensione
all’Idea generante, lontana dal mondo concreto della cui formazione è invece
stata, attraverso la mediazione del proprio corpo, strumento. Eppure essa era donna
e madre.
Da
sempre interessata al tema della figura femminile e attenta ad approfondire,
attraverso una lunga e complessa ricerca, il ruolo culturale della donna nella
società, l’artista affronta il mistero mariano e la figura della mater dei genetrix (secondo i principi sanciti
a Nicea, Costantinopoli, Efeso e ripresi poi in successivi concili ecumenici)
come pretesto per ridiscuterne i dogmi evangelici e la loro interpretazione e
riflettere sulla componente femminea dell’umanità che un pensiero teocentrico e
androcentrico ha invece occultato nell’ortodossia di un’errata credenza, elevandola
e confinandola in mondi puramente intellegibili e determinandone un perentorio allontanamento
dai mondi sensibili (gli stessi nei quali Gesù si rivolgeva e parlava alle
donne; dalla donna infatti egli nasce e con le donne rinasce, consegnando ad
alcune discepole il kerigma della
propria resurrezione) nei quali dovrebbe invece avvenirne, in virtù
dell’importanza del ruolo sociale svolto, ieri come oggi, la devozione.
Nella
modernità della Madonna di Paolo Veneziano è difatti racchiusa la dualità (e la
complessità) di ciascuna donna; anche nella rilettura offerta dal lavoro di
Paola Volpato riemerge, con forza, un aspetto reale della stessa figura che, divisa
tra uno spazio terreno e uno spazio celeste (un sincretismo sintetico proprio
del linguaggio espressivo dell’artista), allude (e riconduce l’indagine) alla sfera
umana di cui ciascuna donna è espressione.
L’icona
dipinta da Paola Volpato si sviluppa così - com’è solita fare l’artista -
attraverso l’enunciazione graduale di un universo intimo e privato determinato
da dettagli minimi ma significanti della propria esperienza esistenziale i
quali, pur composti entro (e mai oltre) lo schema narrativo trecentesco (che
fornisce qui all’artista il registro aulico, solito dei suoi lavori), ne
ricostruiscono e rileggono il valore immanente, traducendo la monumentalità
della Vergine di Paolo Veneziano in un’immagine maggiormente umanizzata che si
presta invece a una devozione domestica. Dallo sguardo vivo e dialogante (non
più guidato dall’estasi mistica) della (Ma)donna di Paola Volpato così come in
quello della (Ma)donna del Veneziano emerge il richiamo a una comprensione
totale e assoluta della figura femminile e delle sue molteplici eterogeneità; la
donna osserva e narra storie presenti, svincolate dalla mitologia cristologica,
riconducendone la valenza alla contingenza del momento, evocate non più da
formule liturgiche codificate ma da slanci simbiotici come incontro con l’altro
da sé - una laica conversazione metaverbale - che l’artista sottolinea disseminando
il testo pittorico di objet trouvé dal
forte valore simbolico e deduttivo come ad esempio l’esile braccio (anch’esso
proteso) che, sotto forma d’iconoclastica sineddoche, suggerisce l’essenza di un
Gesù (già disceso tra la gente ma ancora spiritualmente vivo nel luogo
originante) nel clipeo del ventre materno.
Entrambe le versioni della Madonna rifuggono quindi un
rapporto dogmatico di fede, entrambe emergono da una lenta ricostruzione della
loro sostanza possibile soltanto attraverso la scoperta e decrittazione di dettagli
delfici ed ermetici per giungere alla definizione unitaria dell’insieme, alla
sua comprensione; il viaggio così nella scrittura visiva di Paola Volpato
lambisce il dolore e la violenza di un destino certo e immutabile al quale la
donna, nella storia, sembra essere destinata (espressa sia dal Bambino che oggi
amorevolmente regge in grembo ma presto destinato alla Croce, sia dall’umanità tutta
che ne comparteciperà - e capirà - la sofferenza) e determina il nostro
approccio empatico e spontaneo all’immagine (“eia, mater, fons amóris, me
sentíre vim dolóris fac, ut tecum lúgeam”, usando le parole, scritte solo pochi
decenni prima, da Jacopone da Todi nello Stabat
Mater) per indurci a un sentimento maggiormente consapevole, non puramente
speculativo, dei valori (unicamente) muliebri di cui quest’immagine è
portatrice, forte al punto da accettare la vita così come la morte.
E, nella storia riscritta da questo Vangelo apocrifo, la
Madonna è allegoria della donna e dell’artista stessa, assume i tratti somatici
di persone care non più presenti, diviene fulcro d’immagini di esseri sofferenti
in attesa di redenzione attraverso la sua dolorosa intercessione, protegge
amorevolmente nel disco del grembo i profili dei familiari (il grembo materno
rimane così, oltre la creazione e la gestazione, il porto sicuro e il luogo dei
ritorni), si manifesta con elementi (pigmenti, terre, ritagli di giornale,
limatura metallica) tratti dalla quotidianità di Paola Volpato. La profusione
dell’oro della tavola di Paolo Veneziano (elemento ancora bizantino) cede il
posto qui ai rossi e ai vermigli delle terre mischiate all’olio, alludendo a
una spiritualità reincarnata nel Verbo e, come il figlio, ritrova nel Verbo
(nella parola iniziatica) il senso etimologico della propria natura; nella materia
(mater), sostanza primaria da cui le altre sono formate, anche la donna è materia,
viva, sanguigna e calda, elemento che non trascende (disperdendo la propria
natura nella luce) piuttosto discende (e dal quale il figlio discende), determina
e crea un nuovo spazio d’azione. Nel parallelo diretto qui operato tra Madonna e ma donna l’artista esprime però un precetto puramente teorico, una visione
stilnovista della donna (la perdita d’identità, di carnalità, di realtà) che, nella
contemporaneità, non conduce a un fervido credo quanto piuttosto a reiterate
profanazioni, a ripetute violenze delle quali l’archetipo femminile è costantemente
vittima e a causa delle quali l’immagine sacra della madonna mater dei (e madre di tutte le madri), nella quotidianità, diviene
anacronistica utopia. Ancora una volta Paola Volpato ci apre il proprio
universo intimo, permeato da eleganti rimandi intellettuali, da correlativi
oggettivi, da rebus visivi, da citazioni storiografiche, da segni e grafemi che
attingono dalla propria esperienza di donna e madre, lasciando lentamente
affiorare una condizione dell’essere della quale oggi, ciascuna donna, è
determinata ma della cui determinazione è contemporaneamente vittima, prigioniera
di una metaforica forma iconica stereotipata e di una società, seppur di
matrice matriarcale, idealmente in grado di idealizzarne il concetto ma concretamente
incapace di rispettarne l’essenza.
Madonna Marcello n.1 2002 smalti e tecnica mista su tavola, 120x180cm |
Ma donne - inaugurazione |