lunedì 28 aprile 2014

progetto EXTRAMOENIA

     Enzo Barion La caduta

testo critico a cura di Gaetano Salerno
Una caduta inarrestabile e verticale, come quella di demoni – un tempo angeli portatori di luce - precipitati nella corruzione della materia e prigionieri di mondi claustrofobici e irrazionali, vittime dell’oscurità e del buio del pensiero, costretti alla reiterazione passiva ed eterna di azioni involutive e prive di senso.
Nei teatrini dell’artista, simili a sacri reliquiari, si concretizza una trasfigurazione visiva dei dubbi esistenziali che da sempre logorano le nostre coscienze e tormentano le nostre anime; al di fuori di questi spazi conclusi, oltre la struttura di queste apparenti logiche ambientazioni dettagliatamente strutturate, oltre i perimetri assegnati, esiste solo il nulla e il vuoto.
Guardare dall’alto questi lavori, penetrando le azioni intime di personaggi deformi, investe ciascuno di noi – demiurghi buoni o cattivi, puri o corrotti - di un ruolo assoluto e distaccato, come se prigionieri del nostro punto di vista autoritario ma parziale vivessimo una totale catarsi nell’osservarci e deriderci, prendendo atto dei nostri atteggiamenti concreti e delle nostre illusorie sostanze, elaborando una percezione lieve delle colpe ancestrali ormai dimenticate.
La pesantezza di un peccato originale condiviso che ci precipita quotidianamente nella dannazione non ammette però redenzione; gli attori di questi palcoscenici, antropomorfi pur sviluppando sembianze mostruose e abbruttimenti indotti forse dalla cattiveria delle loro anime e dei loro pensieri, evidenziati dal blu innaturale dei loro incarnati, accomunati da strani copricapo e tuniche sotto le quali si cela una condivisione democratica, quasi settaria, di tragici destini, divengono iconografie vitali e mortifere, protagonisti di danze macabre in cui la morte è solo allusa ma comunque presente.
Invadendo così gli spazi di arte e vita e obbligandoci a riconsiderare la nostra natura entro inquadrate e incorniciate porzioni di realtà, l’artista ci forza a una riflessione lenta ma inesorabile, assumendo coscienza della nostra inutilità e della nostra pochezza, intuendo l’ossimoro di tragica bellezza nelle storie minori di questi copioni e, nel contrappasso della pena, riscoprirle nostre.
Privandoci di appigli fideistici o filosofici, la caduta segna l’inesorabile tragedia della fine dell’età delle illusioni, decretando metaforicamente la rinuncia ai piaceri dell’intelletto, il consapevole abbandono di stati di equilibrio invalidati dalla vertigine, irrimediabilmente perduti; la soluzione ripiega sull’uomo stesso, la salvezza è affidata alla res cogitans, a una dolorosa quanto necessaria crescita intellettuale.
Ecco così i riferimenti alchemici di questi non-luoghi, le ricostruzioni di laboratori di scienze empiriche simili a quelli di santi rinascimentali dei quali l’artista riproduce la stessa astrazione temporale, la stessa mistica e nitida aulicità, impedendo un’ulteriore caduta verso gironi infernali ancora più bassi, un attimo prima che il tutto sconfini nel grottesco.
Ciascun teatrino offre perciò un effimero ma piacevole senso di appagamento che tende con energia la molla della sopravvivenza, fornendo nuova ingannevole carica potenziale alla ripetizione continuata di un errore iniziale, la scintilla causale e imprevista che ha generato la vita originando un presumibile progetto empirico sfuggito di mano al creatore, endogeno e autoimmune, la cui funzione risulta ancora oggi incomprensibile.
Da queste vicende umane prive di incipit e di epilogo e immuni a qualsiasi forma di plot narrativo, ogni personaggio divenuto allegoria del proprio atteggiamento, introduce inconcludenti atti di sopravvivenza per (ri)elevare la propria coscienza oltre il peso morale eccessivo dell’inconsistenza: distruggendo forme di cultura preesistita ma inappagante, come i dogmi nei quali abbiamo passivamente creduto, intraprendendo un’ascesa resa improba da una scala (simile a quella sognata da Giacobbe) troppo corta per superare i nostri limitati orizzonti, nell’attesa di una forma nuova di rivelazione non ancora intuita, da trascrivere su pagine ancora inesorabilmente bianche, oppure osservando l’alto di cieli cupi, per individuare il punto di partenza di questa caduta e studiare eventuali strategie di ritorno.
Contando ripetutamente i grani di sale sparsi negli angoli - per destrutturare con un dettaglio caotico queste inattuabili armonie - fingendo di ignorare l’inganno del tempo che ci condanna all’attesa, impegnandoci in operazioni utopiche, formalmente necessarie, procrastinando così ogni tentativo di fuga.
Muoversi sulle scacchiere che costituiscono gli unici appigli solidi di questi scenari, le regole matematiche di un universo in cerca di geometria e ortogonalità, procedere costantemente nella scelta (o nel dubbio) del bianco o nero, la diagonalità trasversale di passi che non avanzano linearmente e speditamente eppur si muovono, allude forse al libero arbitrio, un loop inarrestabile di balzi nella direzione errata, come sfida persa in partenza con un universo le cui regole fisiche limitano i nostri margini di azioni pur non decretando la vittoria assoluta del male sul bene.
L’attenzione maniacale nell’inserire dettagli realistici, il curare minuziosamente le descrizioni come in quadro fiammingo, il ricorrere a registri ermetici densi di simbologie, il ricondurre il tutto ad un preciso verismo formale, aumentano la tensione narrativa facendo presto evolvere la commedia in tragedia, suggerendo l’esistenza del tutto in quanto assoluto e plausibile e certo; con la stessa certezza di intraprendere nell’oscurità di atmosfere oniriche notturne, sul precipizio di un sogno, la reale discesa in luoghi ameni della psiche in cui esistono verità e spiegazioni evidenti delle quali, nel risveglio imposto dalle prime luci dell’alba, appare desolatamente certa l’assiomatica indimostrabilità. 




Manù Brunello  VESTITI SOSPESI
a cura di
Adolfina De Stefani e Gaetano Salerno presentazione critica a cura di Gaetano Salerno
sabato 03 maggio 2014, ore 19.00
Manù Brunello, artista veneziana di formazione accademica, studia e persegue da tempo una colta riflessione sui valori della tradizione figurativa di area lagunare, muovendosi agilmente tra arti decorative e pittura; affrontando e studiando diverse tecniche realizzative, dalla china allo stencil, dalla pittura murale su intonaco e su pietra all’olio su tela, avvicina e riconsidera i mondi espressivi della moda e del costume, del merletto, del ricamo, delle perle di vetro di Murano intrecciate e del gioiello, recuperando e riportando intatti nei propri mondi pittorici gli elementi fondanti di una complessa ed affascinante realtà, ricca di storia e originata da significative culture artigiane ed artistiche autoctone.
I colorati e panneggiati vestiti dipinti da Manù Brunello (oli su tela e tecnica mista di grandi dimensioni), sospesi a grucce di legno e nitidamente stagliati su sfondi monocromatici, diventano così un interessante pretesto per discutere i principi propri del dipingere, per riconsiderare il valore imitativo ed illusorio della pittura nella strutturazione di un linguaggio influenzato da un pensiero iperrealista tanto scenograficamente vero e reale quanto dichiaratamente falso, lasciando emergere tuttavia, oltre l’inganno percettivo, un forte e determinato valore sentimentale e affettivo, insito nell’oggetto pittorico stesso.
Come spiega infatti l’artista parlando del proprio lavoro, l’interesse si concentra sulla descrizione di "oggetti" significativi ed evocativi, attraverso i quali trovare principalmente una continuità nel percorso di ricerca e i soggetti dipinti sottintendono che “ il loro essere è essere al posto delle cose”.
Scrive Gaetano Salerno, a proposito della ricerca dell’artista, nel testo critico Vestiti Sospesi:
“ [...] Realizzare merletti, ricami, gioielli, stoffe lucenti o vellutate, damaschi e stuoie con il pennello, utilizzando inganni visivi la cui natura mimetica introduce una pronta rivelazione di falsità, non è il pretesto per dar vita a virtuosismi di maniera, leziosamente svelati dai dettagli imitativi del trompe-l'œil, quanto piuttosto l’occasione per discutere il valore evocativo del segno, per declamare poesie della sottrazione, nella sintesi di un mondo (o svariati mondi) contenuto, commensurabile, preciso come un taglio sartoriale, determinato dalla misurazione della superficie mai eccedente o eccessiva e sempre delimitato dal limes fisico e sensoriale entro il quale l’artista racchiude la propria ricerca.
L’abito emerge dall’impenetrabilità silente dello sfondo monocromatico, attualizzandosi nel colore puro, illuminato e sublimato da toni contrastanti e iperbolici, circoscritto dall’intrinseca bellezza delle ricercate trame e orditi (funzionali qui alla rivelazione del lusso materico), privato dello spirito energico delle esistenze che dovrebbe potenzialmente contenere, per divenire icona dell’intuizione, mantenendo comunque inalterata la propria carica vitale; appare perciò assoluto e ieratico, metaforicamente in attesa di una forzata svolta realistica che non avverrà, espressione di una raffinata cultura dell’essere e dell’esistere non più in relazione alle alterazioni del tempo né alle sue reiterate azioni.
Nasce cosi una completa collezione espressa da raffinatezze e ricercatezze, l’apologia del formalismo che intercetta (anzi esalta) il valore dei contenuti, l’iridescente dimostrazione di una vita che sopravvive alle linearità delle storie che ogni episodio pittorico concettualmente sottintende, come l’oggetto stesso estrapolato dalla sua natura, per quanto temporaneamente subordinata alla sua testimonianza oggettuale; la metonimia cita l’umanità senza abusare della sua struttura umana, contrapponendo così, con la stoffa dipinta, l’eterna eleganza alle brutalità intellettuali che regolano il mondo terreno [...]”.
3D Gallery
Via Antonio Da Mestre, 31 Venezia Mestre












 Anastasia Moro
Avatar
a cura di
Adolfina De Stefani e Gaetano Salerno presentazione critica a cura di Gaetano Salerno venerdì 28 marzo 2014, ore 19.00
Nuovo appuntamento presso la 3D Gallery di Venezia Mestre con la rassegna extraMOENIA, progetto di ricerca ideato e curato da Adolfina De Stefani e Gaetano Salerno, in collaborazione con Mismomatic e Segnoperenne, focalizzato sull’indagine e sulla documentazione del rapporto tra arte e vita, tra finzione e realtà, tra artista e spazio interno/ spazio esterno della galleria.
extraMOENIA apre la galleria alla città e la città ritrova all’interno del luogo espositivo la naturale estensione della propria identità, lasciandosi contaminare dalle forme umane e naturali che sussistono pure esterne ai circuiti artistici, in attesa di essere intercettate, esplorate ed esposte.
extraMOENIA vuole infatti instaurare scambi logici e significativi tra differenti registri culturali, quello alto dell’icona dell’arte e quello basso dell’immagine reale prima della sua trasformazione e consacrazione iconica, svuotando entrambi i linguaggi delle proprie autorefenzialità per inserirli in un percorso comunicativo fluido e spontaneo in cui differenti organismi vitali – azioni e idee - intuiscono e intercettano nuovi principi relazionali, nuovi contesti espositivi e nuove forme di convivenza.
extraMOENIA inverte i ruoli di città e galleria, ne modifica le strutture, analizza l’interspazio che nasce dalla loro sovrapposizione e dalla loro compenetrazione, ristabilendo i contatti tra il fuori e il dentro dell’arte, individuando nelle metafore delle strade, degli edifici, delle aree verdi, dei non– luoghi della cementificazione e nelle azioni degli attori di questi molteplici palcoscenici sociali e intellettuali gli spunti per una puntuale ed eterogenea documentazione della contemporaneità.
Dopo le personali di Enrico Bonetto (UNTITLED), Fiuto Rama (T.T.T. | the tube theory) e la collettiva di Mail Art dedicata alla figura di Lord Byron inaugura venerdì 28 febbraio 2014 alle ore 19.00, Avatar, personale di Anastasia Moro, a cura di Adolfina De Stefani e Gaetano Salerno, con presentazione critica di Gaetano Salerno.
La galleria ospita l’artista padovana (la cui ricerca si articola da sempre attraverso eterogenei linguaggi e tematiche) per presentare al pubblico una sua recente produzione incentrata sul tema dello sdoppiamento e della dualità: 6 light box fotografici, stampa su vinile luminescente applicato su policarbonato opalino e 2 grandi stampe fotografiche su pvc espanso compongono questo episodio espositivo in cui lo sguardo dell’artista penetra la natura di un bosco incantato per ritrovare nelle linee nodose e contorte dei fitti rami intersecati e nell’impenetrabilità di elementi naturali apparentemente ostili, immagini antropomorfe, sprazzi di esistenze, anime specchianti di personalità umane; anch’esse contorte e nodose, prigioniere di claustrofobiche emozioni e di sinuose bellezze spingono l’osservatore oltre l’inganno della visione della forma e del colore, verso implicazioni filosofiche da cercarsi oltre le superfici delle cortecce, piuttosto in un credo antico e complesso del quale il fitto bosco è diretta manifestazione terrena.
Avatar in sanscrito significa discesa di una divinità dal cielo sulla terra, incarnazione o manifestazione della divinità stessa. Vishnu conta ben dieci avatar, fra questi il più celebre e venerato è Krishna, tradizionalmente raffigurato con la pelle azzurra. Vishnu, incarnato in un avatar, scende sulla terra per ristabilire il bene e la giustizia quando questa è minacciata dall’uomo stesso; anche nel bosco incantato e ammantato dall’azzurro del fotoritocco è sceso un avatar per ristabilire l’equilibrio tra l’uomo e il suo ambiente. “Di questo bosco” dice l’artista “rimangono frammenti e particolari impossibili da dimenticare o sradicare. Coglierne i mille volti e la sua vitale architettura significa riscoprire il significato della vita”.
La presenza di alberi ricollega direttamente la ricerca di Anastasia Moro al leitmotiv della rassegna, introducendo nello spazio espositivo elementi vegetali fitomorfi la cui essenza, oltre la durezza e la fissità delle strutture lignee, è invece ben presente, viva ed energica. La natura fotografata e
messa in posa si riappropria così di luoghi alieni ma vitali, colora con elementi fluo e debordanti di anime cromatiche il candore delle pareti, ristabilendo un legame diretto tra il “dentro” e il “fuori”, riunendo due estremi concettuali quali il reale e il sublime.
Scrive Gaetano Salerno, a proposito della ricerca dell’artista, nel testo critico La vanità degli elementi:
“ [...] Assumendo regole della percezione visiva l’artista esalta in ogni creazione apparenze, suggestioni, impressioni determinate sulla tela dal colore e dalla chiarezza, inventando strutture empiriche i cui contorni, responsabili della forma – anche quando la forma sembra disciogliersi in macchia e sfuggire ad ogni catalogazione possibile – richiedono all’occhio un preciso e rigoroso esercizio di decodifica, prigioniero degli spazi che rivendicano, talvolta con fermezza e talvolta con libertà, attimi di luce e di policromie, entrambi pariteticamente media percettivi di queste costruzioni pittoriche.
Ogni lavoro appare così un’intromissione, per quanto gentile e cortese, nei territori del bianco e della sottrazione, metafore di un diorama pulsante in cui percorsi vitali della pittura sono intuibili e plausibili anche se non ancora posti in essere, privati della loro naturale ed usuale percezione.
In base dunque a quello che la psicologia della visione definisce il potere di discriminazione, ogni forma consente di intravedere infiniti singoli soggetti diversi tra loro, ciascuno protagonista del suo proprio segmento di storia, ciascuno indissolubilmente legato al gesto dell’artista che ne stabilisce e coordina empaticamente le linee di sviluppo [...]”.
L’artista Anastasia Moro sarà presente in galleria in occasione della vernice di venerdì 28 marzo 2014, presentata dal critico d’arte Gaetano Salerno.
Venerdì 04 aprile 2014 è inoltre previsto un incontro-aperitivo in galleria (ore 18.30, ingresso libero), per discutere, prendendo spunto dalla ricerca dell’artista sul tema del doppio e dell’alterità dell’artista, figura sdoppiata tra realtà reale e immaginifica, del ruolo dell’artista oggi e del sistema dell’arte contemporanea (seguirà comunicato stampa).
28 marzo | 11 aprile 2014 






Giorgio Trinciarelli Dal progetto all’oggetto
testo critico a cura di Gaetano Salerno
Nasce e vive in due spazi (mentale e fisico) distinti eppure complementari il lavoro di Giorgio Trinciarelli; uno spazio del pensiero – lo spazio mentale della progettualità – e uno dell’azione, lo spazio fisico dell’oggettività.
La strada tortuosa che dal progetto conduce alla manifestazione fisica di un pensiero creativo assume nel lavoro dell’artista il valore di percorso (auto)analitico, il pretesto per inscenare con l’atto maieutico dell’esecuzione l’eterna dicotomia tra razionalità e irrazionalità, il passaggio dalle tenebre alla luce, estraendo dalle profondità della propria psiche forme appaganti, risultanti da un’intuizione illuminante finalmente lasciata affiorare.
Così come il pensiero è volatile, mobile e dinamico (alle chine, agli acquerelli e alla produzione calcografica affidata la sua trasposizione iconica), l’oggetto (nella definitiva conquista del tuttotondo) è statico, immobile, immutabile; il primo contiene le volontà, le potenzialità, le possibilità, il secondo le attestazioni, le conferme, le certezze.
Entrambi i mondi, uniti da un percorso formativo dell’oggetto artistico e da un paratattico percorso emotivo di rivelazione di un sentimento, coesistono nell’intento realizzativo come anelito a un concetto inoppugnabile; in lotta però, presto e inevitabilmente, con le corruzioni di una materia la cui struttura talvolta esprime armonia, talvolta lascia emergere, tra le crepe contorte della superficie frastagliata, i dubbi e le incertezze di una natura umana tanto complessa e inquieta quanto la società contemporanea della quale questa produzione diviene – dentro e fuori metafora – realtà speculare.
L’oggetto, sia esso poetico, allegorico, simbolico (accettando così ogni definizione plausibile in rapporto ad un’interpretazione soggettiva estrinseca) si rafforza, interagendo con il progetto che l’ha generato, nella dualità di un pensiero senziente e agente sia nella geometria piana che in quella stereometrica attraverso disegni, colori, colature, sbozzature, bruciature, levigature, pervenendo in entrambi i casi a un’addizione (o sottrazione) finale che rappresenta la somma o la differenza di ciò che è stato, di un passato che è già storico e storicizzabile, ponderabile attraverso il materiale che si è stratificato, addizionato o sottratto per assecondare le pulsioni (costruttive - distruttive) dell’artista.
Più stili, motivi, tecniche si dipanano così nell’opera di Giorgio Trinciarelli fino a formare un mosaico modulare in continua espansione, evidentemente svincolato da qualsiasi predisposizione organica all’evoluzione autonoma ma nel quale ciascun tassello appare una libera interpretazione di quello precedente e di quello successivo, condotto da una linea progettuale unica che, ora adattata alla piattezza della bidimensione, ora contorta oltre la carta, si determina spazialmente.
L’oggetto oggettuale, la sua oggettività che è anche definitiva accettazione della forma corporea, non tradisce però l’immaterialità della forma intellettuale che l’ha generato; la sua figura, originata dall’aggregazione alchemica di ingredienti che l’artista ha preordinatamente selezionato e ricomposto, trasmette la stessa espressione del concetto supposto, del pensiero pensato, aumentando però il proprio valore grazie all’improvvisa e inattesa natura concreta, definitivo feticcio delle nostre pulsioni culturali.
Il mondo delle idee e il mondo degli atti, riuniti in un’operazione più concettuale che estetica, ricordano dunque, focalizzando l’attenzione oltre l’evidenza e tangibile compattezza dell’opera d’arte conclusa, che la realtà definitiva sia sempre scomponibile in singoli elementi sostanziali, ognuno presente in un processo precedente a quello terminale e dalla cui interazione emerge l’oggetto in cui è percepibile l’azione combinata di un intelletto meccanico imposto da un volere superiore.
Il sillogismo che ne consegue sposta il progetto verso l’oggetto e successivamente l’oggetto verso il soggetto introducendo così un terzo e imprescindibile vertice a un gioco semantico in cui la figura dell’artista riporta il processo formativo a un livello intellettuale che la forma espressa dall’opera avrebbe invece - prigioniera di una immediata quanto artefatta bellezza - teso ad allontanare o ad ignorare, cedendo a più facili criteri di fruizione, vincolati ad una fattività materiale.
L’oggetto sceglie autonomamente la propria rappresentazione scenica, si auto-produce nel tempo e nel luogo per sovrapporsi allo spazio (divenuto, nel frattempo, contenitore di un’idea) e per trovare con esso rapporti elettivi, dialoghi evidenti, comunicazioni significative in un processo di trasformazione del banale in universale, alla ricerca di evidenti spunti per concretizzarne il passaggio definitivo e necessario ad oggetto artistico.
Il creare forme, estenderle di là dell’intelletto, sembra seguire nell’opera di Giorgio Trinciarelli una libera associazione freudiana dei pensieri, spinti oltre la loro effimera sostanza verbale, oltre la loro consistenza emotiva; le masse che l’artista organizza e inserisce sistematicamente nel mondo delle realtà sono le stesse che con leggerezza e immediatezza psichica si distribuiscono sul foglio bianco e intonso, assecondando linee apparentemente irrazionali che seguono intuitivamente divagazioni dell’animo, segnando punti e tracciando arabeschi con i quali disegnare una mappatura complessa ma risolutiva della mente assoggettata a regole espressive e comunicative proprie di immagini assolute e totalitarie.
L’oggetto è dunque per Giorgio lo spazio recondito dei trascorsi e dei vissuti emotivi, dei ricordi solo superficialmente rimossi; posto di fronte all’evidenza dell’oggetto l’artista si interroga sull’origine dei pensieri e sulla loro natura trasmigrante, accettando così una forma conclamata come esposizione di un bene intellettuale e non possedibile se non attraverso una sublimazione della sua natura terrena, riconsiderando e ricodificando il significato incorporato del prodotto che non può più ignorare la teoria costruttiva dell’oggetto in funzione dell’ oggetto medesimo, disgiungendo così la dimensione materiale dalla sua antitesi, l’extra-materialità.
L’adesione poi a principi minimalisti o a concetti mutuati dall’arte povera consente all’artista di concentrarsi sulla ricchezza intrinseca delle pietre, dei metalli, dei polimeri, per evidenziarne al meglio le specifiche peculiarità, ampliandone le proprietà estetiche senza tuttavia subordinarsi ai principi del decorativismo, fissando dunque con rigore i limiti gestativi dell’oggetto, evidenziando le barriere e le membrane entro le quali la forma incontra la sua essenza senza debordare o eccedere.

Per questo l’arte del formare è l’arte del divenire; plasmando la materia l’artista assoggetta la forma al proprio intelletto, riadattandola al contesto, non propriamente limitabile a quello artistico ma necessariamente estendibile agli inconsci collettivi dei quali, questa espressione artistica, tenta di decifrare e svelare verità nascoste; l’indecifrabilità e la complessità della psiche e di elementi in subbuglio e la pacificazione delle strutture della superficie, la cui levigatezza e lucentezza armoniosa celano invece costrutti travagliati, sofferti, forse catartici, rivelano così l’uomo e la realtà sociale circostante.
Le forme pensate e prodotte accolgono spunti biomorfici, accenti geometrici, contaminazioni linguistiche, suggerendo una presenza dell’artista sottoforma di pura proiezione mentale, di suggestione emozionale, di verità soggiacente; le dogmatiche e segniche scritture pittoriche e le totemiche rappresentazioni scultoree, sviluppate in forme archetipiche che fondono linguaggi primitivi e immediati ad altri contemporanei intercettano un livello concettuale in cui coesistono misteriose immagini di armonia e dolore, di serenità e tormento, a seconda del livello di tensione al quale Giorgio decide di condurre i suoi elementi.
Poiché lo spazio è costituito da pieni e da vuoti, da negatività e positività, da superfici aggettanti e rientranti, da dettagli estroflessi o introflessi, anche l’idea dell’oggetto, nella sua metamorfosi al reale, deve organizzarsi secondo precise alternanze di pieni e di vuoti, di metonimiche citazioni di dettagli ritmati da alternanti positività e negatività modulari, intersecando ogni piano dell’ambiente nel quale verrà collocato, accettando il piedistallo di visibilità che l’ingresso nella terza dimensione garantirà per sopravvivere poi autonomo al tempo, alle idee, alle carte, ai progetti. 

 





Fiuto Rama
T.T.T.
(the tube theory)

a cura di
Adolfina De Stefani e Gaetano Salerno presentazione critica a cura di Gaetano Salerno

venerdì 21 febbraio 2014, ore 19.00
Nuovo appuntamento presso la 3D Gallery di Venezia Mestre con la rassegna extraMOENIA, progetto di ricerca ideato e curato da Adolfina De Stefani e Gaetano Salerno, in collaborazione con Mismomatic e Segnoperenne, focalizzato sull’indagine e sulla documentazione del rapporto tra arte e vita, tra finzione e realtà, tra artista e spazio interno/ spazio esterno della galleria.
extraMOENIA apre la galleria alla città e la città ritrova all’interno del luogo espositivo la naturale estensione della propria identità, lasciandosi contaminare dalle forme umane e naturali che sussistono pure esterne ai circuiti artistici, in attesa di essere intercettate, esplorate ed esposte.
extraMOENIA vuole infatti instaurare scambi logici e significativi tra differenti registri culturali, quello alto dell’icona dell’arte e quello basso dell’immagine reale prima della sua trasformazione e consacrazione iconica, svuotando entrambi i linguaggi delle proprie autorefenzialità per inserirli in un percorso comunicativo fluido e spontaneo in cui differenti organismi vitali – azioni e idee - intuiscono e intercettano nuovi principi relazionali, nuovi contesti espositivi e nuove forme di convivenza.
extraMOENIA inverte i ruoli di città e galleria, ne modifica le strutture, analizza l’interspazio che nasce dalla loro sovrapposizione e dalla loro compenetrazione, ristabilendo i contatti tra il fuori e il dentro dell’arte, individuando nelle metafore delle strade, degli edifici, delle aree verdi, dei non– luoghi della cementificazione e nelle azioni degli attori di questi molteplici palcoscenici sociali e intellettuali gli spunti per una puntuale ed eterogenea documentazione della contemporaneità.
Chiusa dunque la personale UNTITLED di Enrico Bonetto con la quale il ciclo di appuntamenti è stato ufficialmente presentato al pubblico inaugura, venerdì 21 febbraio 2014 alle ore 19.00, T.T.T. (the tube theory), personale di Fiuto Rama, con presentazione critica a cura di Gaetano Salerno.
La galleria ospita l’artista concettuale milanese (Fiuto Rama è solo uno dei tanti eteronomi da lui utilizzati) e un segmento significativo del suo lavoro di ricerca, un’invasione pacifica ma eloquente, invasiva e dissacratoria dei mondi e dei modi propri della comunicazione, individuata e segnata da segmenti di tubi che “occultano” porzioni altre di spazi di realtà, per riconsiderare e riflettere - con oggetti apparentemente comuni - idee apparentemente comuni; la missione dell’artista è da tempo infatti contaminare le visioni e le mostre altrui, inserirsi in contesti impropri (o, letteralmente, “non propri”), appropriarsi di intuizioni già pensate e dichiarate (e già prigioniere di preimpostate forme artistiche) per suggerire nuovi spunti di discussione generate da cortocircuiti comunicativi, alimentate da dubbi e conseguenti errori attribuzionistici, amplificate dal nonsense dell’ incomprensione, argomentando un paradigmatico fraintendimento con abili giochi di rimandi, sostituzioni di persona, citazioni di linguaggi alti intervallati a registri bassi, popular e minimal dell’arte, propri del secondo Novecento ma sempre attuali.
L’appuntamento espositivo vuole porre l’attenzione, partendo dall’atteggiamento “irrispettoso” dell’artista nei confronti dell’establishment artistico e della nicchia nella quale spesso l’arte ama rinchiudersi e svelarsi con parsimonia, sul ruolo dell’artista nella contemporaneità e sulle possibilità che la contemporaneità può offrire a chi vorrebbe fare arte, aspettando una propria consacrazione mediatica e critica o anticipandola caparbiamente “occupando” (e divenendo interprete) di sceneggiature altrui.
Scrive dell’artista Gaetano Salerno nel testo critico Essere (o non essere) originali:
“ [...] Il tubo è l’oggetto casuale come casuale sarebbe stato un taglio, una bruciatura, un baffo o l’immagine stilizzata di una banana. Fiuto Rama cita la sua natura, richiama ciò che nasconde, sottintende ciò che decide di occultare, ricostruendo la composizione dell’opera e le linee dei

nostri movimenti saccadici attorno ad un elemento estraneo che non distrae, casomai rinvigorisce la propria energia divenendo centro di un nuovo percorso ottico.
Per farlo deve standardizzare un canone estetico, pilotando la sua consacrazione a modello e rituale, evidente quanto contingente. D’altronde Fiuto Rama diventa garante dell’originalità dell’opera (anche se non sua) e preserva il prodotto artistico da ulteriori e più dannose falsificazioni, spostando la sua azione al di fuori del campo semantico stesso nel quale esiste l’opera scelta.
E’ l’imprimatur reiterato dell’originalità a garantirne la “falsificazione d’autore”; sfalsando così la realtà dei fatti, rigenerando l’opera, traghetta l’oggetto dal mondo delle cose al mondo delle idee, nel quale la forza comunicatrice sarà immortale.
Un concetto che scardina l’idea di assolutezza e fissità dell’arte: intervenendo prima del soggetto artistico, al di qua della barriera narrativa, l’artista - prescindendo da livelli successivi di decodifica - apre una nuova strada verso la beatificazione immediata del prodotto, preceduta da un labile tentativo, subito abortito, di demistificazione dell’oggetto e della sua natura elitaria che non ammette intrusioni [...]”.
L’artista Fiuto Rama sarà presente in galleria in occasione della vernice di venerdì 21 febbraio 2014, presentato dal critico d’arte Gaetano Salerno.




Enrico Bonetto
a cura di Adolfina De Stefani presentazione critica a cura di Gaetano Salerno
venerdì 20 dicembre 2013, ore 19.00
Dopo i cicli espositivi Geography,ALICE! e UNIVERSALE, da poco conclusi, riprendono gli appuntamenti culturali della 3D Gallery di Venezia Mestre con la nuova rassegna extraMOENIA, progetto di ricerca ideato e curato da Adolfina De Stefani e Gaetano Salerno, in collaborazione con Segnoperenne e Mismomatic, focalizzato sull’indagine e sulla documentazione del rapporto tra arte e vita, tra finzione e realtà, tra artista e spazio interno/ spazio esterno della galleria.
extraMOENIA apre la galleria alla città e la città ritrova all’interno del luogo espositivo la naturale estensione della propria identità, lasciandosi contaminare dalle forme umane e naturali che sussistono pure esterne ai circuiti artistici, in attesa di essere intercettate, esplorate ed esposte.
extraMOENIA vuole infatti instaurare scambi logici e significativi tra differenti registri culturali, quello alto dell’icona dell’arte e quello basso dell’immagine reale prima della sua trasformazione e consacrazione iconica, svuotando entrambi i linguaggi delle proprie autorefenzialità per inserirli in un percorso comunicativo fluido e spontaneo in cui differenti organismi vitali – azioni e idee - intuiscono e intercettano nuovi principi relazionali, nuovi contesti espositivi e nuove forme di convivenza.
extraMOENIA inverte i ruoli di città e galleria, ne modifica le strutture, analizza l’interspazio che nasce dalla loro sovrapposizione e dalla loro compenetrazione, ristabilendo i contatti tra il fuori e il dentro dell’arte, individuando nelle metafore delle strade, degli edifici, delle aree verdi, dei non– luoghi della cementificazione e nelle azioni degli attori di questi molteplici palcoscenici sociali e intellettuali gli spunti per una puntuale ed eterogenea documentazione della contemporaneità.
Venerdì 20 dicembre 2013 (inizio ore 19.00, con presentazione critica a cura di Gaetano Salerno) lo spazio espositivo inaugurerà il primo evento del nuovo progetto presentando al pubblico UNTITLED, personale di Enrico Bonetto. La mostra sarà visitabile fino a mercoledì 8 gennaio 2014.
Un’operazione installativa e performativa site-specific, pensata dall’artista e dai curatori per la 3D Gallery; Enrico Bonetto invade e ricostruisce lo spazio espositivo della galleria giocando con la propria assenza, intuendo nel vuoto di un pensiero senza titolo, negli sprazzi di nature e di realtà decontestualizzate e piegate alle esigenze espositive dell’arte, nelle forme pure ed essenziali di oggetti e materiali scelti e offerti per la loro intrinseca poesia, nella spersonalizzazione del proprio messaggio affidato a versi scritti e proferiti da altri, una forma di comunicazione universale e assoluta, prossima ai linguaggi dell’arte povera e dell’arte concettuale, non filtrati o rielaborati dall’azione invasiva dell’artista il quale, sottraendo la propria esistenza fisica all’opera e al suo percorso emozionale, fortifica ed evidenzia il proprio valore intellettuale.
Scrive dell’artista il critico Gaetano Salerno nel testo critico Untitled (da catalogo mostra):
“ [...]Rifugiarsi nella realtà più accogliente e anonima e laica dell’esternità, allontanarsi dal contesto idealizzato della galleria per guardare da dentro ciò che si guarda da fuori, è però a sua volta un’operazione concettuale che esiste, per quanto lontana dall’ortodossia celebrativa di un volto e di un’identità propria dell’esposizione, nel culto encomiastico di un nome che non compare.
L’artista non immola oggetti propri all’arte; esiste, tra lui e i cimeli affissi alle pareti oppure sparsi sul pavimento, il freddo distacco dell’estraneità, grazie al quale l’oggetto artistico diventa oggetto universale, alludendo ad un rapporto sentimentale incodificabile in quanto testimonianza dell’altrui pensiero e dell’altrui produzione.

Del mondo della materia, come dell’universo dell’ artista, rimane solo un nucleo intuibile ed evanescente che deborda oltre l’atto installativo e performativo, verso la certezza della quotidianità esistenziale.
Eliminare perciò la propria orgogliosa presenza, cancellare il titolo facendolo coincidere, concettualmente e sintatticamente e morfologicamente, con la sua inesistenza, evitare di lasciare tracce del proprio passaggio e linee della propria azione vuol dire attraversare senza ritorno la barriera che demarca il sempre più labile confine tra arte e vita, vuol dire abbandonare temporaneamente i campi semantici dell’arte per riassaporare al di qua di un vetro (non più solo metaforico) sensazioni ed emozioni reali, non assiomi verosimili.
Oltre il gesto minimale dunque di progettare la propria cancellazione emerge così, da questa operazione antidogmatica, il principio della doppia presenza, l’anelito all’ubiquità che è proprio dell’artista. Presente oltre gli schermi, con la propria assenza e presente, nel qui e adesso di un tempo che scorre e scandisce i tempi dell’arte, con l’anonima assenza. Una fuga biunivoca, quella di Enrico Bonetto - sospesa tra happening, fluxus e arte povera - dalla forma artistica verso la forma umana.
Prigioniero di un passaggio (non troppo segreto) tra fisicità e astrazione il cui superamento traduce la tensione dialettica tra la natura servile e liberale dell’arte, tra la poesia dell’intelletto e la violenza della parafrasi.
Preferibile alienarsi negli opposti piuttosto che perseguire la menzogna di una giustezza esplorativa unica e conclusa”.
L’artista sarà presente in galleria in occasione della serata di presentazione. Il catalogo della mostra è disponibile in galleria.
20 dicembre 2013 > 08 gennaio 2014